Nel corso dei secoli l’agricoltura non ha svolto soltanto il ruolo di settore primario produttore di cibo.
Essa ha rivestito anche una rilevante funzione ambientale, rappresentando il più importante elemento del rapporto uomo/natura e contribuendo alla costruzione del territorio. In particolare, gli alberi coltivati a scopo alimentare occupano un posto centrale nella incessante produzione di paesaggio; tra questi, l’ulivo e la vite costituiscono fin dall’antichità un tratto saliente dei territori e delle culture dell’area mediterranea.
L’ulivo ci appare, più della vite, come una pianta di elevato valore ambientale e paesaggistico, uno dei principali protagonisti della trasformazione storica delle campagne.
In Molise fin dall’età antica si praticava l’olivicoltura, in particolare nelle aree di Venafro e di Larino.
Tra fine del medioevo e prima età moderna sono molte le testimonianze sull’olio molisano, inserito anche nei circuiti commerciali e marittimi dominati dalla Repubblica di Venezia. Alla fine del ‘700 Giuseppe Maria Galanti definiva l’ulivo “pianta nobile”, evidenziando come le colline del Contado fossero in grado di dare “un olio eccellente e dilicato”, ma nel contempo rilevava che a quest’epoca gli ulivi erano scarsi e mal tenuti, con inadeguati metodi di raccolta delle olive e di estrazione dell’olio: “Poche – scriveva nel 1781 – sono le contrade ove l’ulive siano coltivate, perché l’olio che se ne trae non è bastevole a’ bisogni della provincia”.
Anche il catasto murattiano di inizio ‘800 riportava una limitata presenza dell’olivo. Ma pochi decenni più tardi sia Giuseppe Del Re (1836) che Nicola De Luca (1844) segnalavano la ripresa dell’ulivo: “Da anno in anno si aumenta la piantagione degli olivi, e non tarderà lungo tempo che perverrà al di là de’ bisogni dell’intera provincia…” Anche a quest’epoca il Distretto che più abbondava di ulivi era quello di Larino, in cui si praticava il miglior metodo di potatura “in rapporto alla diramazione alla forma ed alla figura dell’albero. Non meno qui che altrove si fa buon olio, ma diverrebbe squisito se mai fosse fabbricato con miglior arte e cura.”. Tutta l’olivicoltura italiana conobbe nell’800 una notevole progressione, come attesta anche la grande Inchiesta agraria lanciata nel 1877 e diretta da Stefano Jacini. Gli atti di tale Inchiesta, pubblicati tra 1883 e 1886, mostrano che gli olivi si erano moltiplicati nelle regioni del Centro e del Sud. Più olivi significava anche maggiore necessità di impianti per la molitura.
Il piccolo Molise contava alla fine del XIX secolo circa 300 frantoi, che costituivano così, specialmente nel Basso Molise, un’industria diffusa nelle campagne, sia pure tecnologicamente più arretrata di quella dei mulini per il grano: le macine per le olive erano mosse qui prevalentemente dalla forza degli animali.
I frantoi possono essere considerati, insieme ai tratturi e ai mulini, lo specchio dell’economia e del paesaggio storico del Molise.
Ubicati lungo i torrenti o nei borghi, mossi dall’acqua o dall’energia animale (e poi dall’elettricità), queste strutture produttive possono rappresentare oggi, con i loro resti e le loro architetture dei veri e propri itinerari tematici con finalità culturali e turistiche.
A partire dalla fine dell’800 la grande avanzata dell’ulivo sembra rallentare per ragioni commerciali (concorrenza degli oli di semi), sociali (urbanizzazione) e ambientali, tra cui la diffusione della mosca olearia, “esseri infesti che si vanno propagando con un crescendo spaventoso – scriveva un autore di Trevi all’inizio del ‘900 – e la scienza chimica deve ricercare sempre nuove materie insetticide, le quali non possono essere tutte innocue alla salute degli uomini e degli animali.”
Si intravede qui con molto anticipo la questione della rottura degli equilibri ambientali, che si rivelerà in tutta la sua importanza nella seconda metà del ‘900.
Il catasto del 1929 indica che in Molise l’oliveto prevaleva sulle colline in prossimità del litorale molisano e nella piana di Venafro: in pratica i tre quarti della superficie olivicola era distribuita nei comuni di Larino, Montenero di Bisaccia, Termoli e Venafro.
In queste zone, come altrove nel Mezzogiorno, l’estendersi delle piantagioni di ulivi, nella forma specializzata o in quella della coltura promiscua, ha costituito una delle vie attraverso le quali il tradizionale paesaggio del latifondo, desolato e nudo, ha cominciato a trasformarsi.
Anche le colline dell’Italia centrale, fino alla Liguria, ne erano fortemente contrassegnate, tanto da far coniare a Eugenio Montale la bella espressione poetica di “greggi d’ulivi”:
Pure colline chiudevano d’intorno
marina e case; ulivi le vestivano
qua e là disseminati come greggi,
o tenui come il fumo di un casale che veleggi.
Dalla metà del ‘900 in molte zone d’Italia l’ulivo pagherà un tributo assai elevato sia all’esodo rurale e alla modernizzazione agricola, con l’invecchiamento, il deperimento e l’abbandono di tante piantagioni, soprattutto nelle zone più impervie e meno produttive.
Oggi, in diverse aree, si osserva un promettente ritorno delle olivete con lo scopo di ricavare un prodotto di qualità come l’olio extravergine, elemento forte della dieta mediterranea, ma anche nella consapevolezza che l’ulivo ha contribuito storicamente alla “felicità” nazionale e alla costruzione del paesaggio, valorizzando in senso agricolo l’habitat di gran parte d’Italia, in particolare quello del sub-appennino, delle colline, delle balze e delle terre in pendio… di un’Italia scoscesa, rugosa e dolce al tempo stesso.
Articolo di R. Pazzagli da ‘La Fonte’ di giugno | Fonte immagini: ph Maria Vasco fondatrice Moliseinvita © – In evidenza FB ph Giuseppe Del Muto © – Internet